venerdì 21 novembre 2014

Io ti amerò

Per quasi trent’ anni, hai dormito nell’ oscurità impenetrabile di una camera da letto buia come la catacomba di un faraone egizio. Da quando ci sono io, accendi una lucina blu sopra lo scaffale dei libri, perché sai che nel nero della notte non riesco a prender sonno. Non c’è niente di romantico nel dormirti accanto. Nessun petto nudo su cui poggiare la testa, nessun bicipite dalla presa vigorosa. Indossi un pigiama a righe orizzontali che non riesce a farti sembrare meno magro; io uno a righe verticali che, al contrario, riesce perfettamente a farmi sembrare un divano; e ciascuno si volta sul proprio fianco. Schiena contro schiena. Come a proteggersi le spalle. Ogni tanto, allungo una mano e ti pizzico le labbra per farti smettere di russare. Perché tu russi. E probabilmente russo anch ’io. Però giochiamo al gioco del: “Io non russo. Non dire cazzate”. Ed è divertente. La mattina ti alzi prima di me, mi rimbocchi le coperte, mi dai un bacio sulla fronte e dici: “Fragolì, dormi un altro po’”. Ormai tutto il quartiere mi chiama "Fragolì", e io ti aprirei la calotta cranica per questo. Poi mi ricordo che Ti Amo e faccio un lungo, lunghissimo respiro zen. Ommmmmmmmmmm. A colazione mi guardi scettico mentre mangio grisbi alla nocciola e fettine di limone macerate nello zucchero. Io, invece, ti guardo come se fossi scemo mentre pesi i cereali nel latte e fai fuori una scodella di frutta con la stessa estatica dedizione che io riserverei ad una zuppa di cozze. L'ultimo cucchiaio di yogurt lo lasci sempre a me. Non per amorevole premura. No. Per spalmarmelo sulla faccia: mi tratti come una bambina di due anni pur di farmi ridere; mi scopi come una donna di ventotto per farmi godere. Aspetti in piedi due ore e mezza mentre sto facendo un colloquio ed hai spillato a mano, foglio per foglio, i miei 670 curricula. Mentre sono seduta alla scrivania, mi raggiungi da dietro, infili una mano - gelata come la morte che non conosce riposo - sotto la maglia e ti incazzi perché riesco comunque a non perdere la concentrazione. Quando mi arrabbio, sparo parole a raffica. Tu mi silenzi con uno sguardo. Prima di te, ci riusciva solo mio padre.
Cammino dentro le tue pantofole più grandi di sette numeri e ti ho fregato almeno quattro maglioni ed un numero imprecisato di calzini. Perché si, io metto i tuoi calzini. E ci sto calda dentro. Dentro questa storia, che addolcisce gli spigoli vivi del mio carattere senza addomesticarli. L'amore somiglia a noi, che somigliamo a noi stessi. Le favole di pasta di zucchero lasciamole ai paurosi della realtà.

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giovedì 23 ottobre 2014

Donne al Quadrato, in USA

Ci sono le Donne. E poi ci sono le Donne Donne. E quelle non devi provare a capirle, sarebbe una battaglia persa in partenza. Le devi prendere e basta. Devi prenderle e baciarle, e non dare loro il tempo di pensare. Devi spazzare via, con un abbraccio che toglie il fiato, quelle paure che ti sapranno confidare una volta sola, una soltanto, a bassa, bassissima voce. Perché si vergognano delle proprie debolezze e, dopo avertele raccontate, si tormenteranno - in un'agonia lenta e silenziosa - al pensiero che, scoprendo il fianco, e mostrandosi umane e fragili e bisognose per un piccolo fottutissimo attimo, vedranno le tue spalle voltarsi ed tuoi passi allontanarsi. Perciò prendile e amale. Amale vestite, che a spogliarsi son brave tutte. Amale indifese e senza trucco, perché non sai quanto gli occhi di una donna possano trovare scudo dietro un velo di mascara. Amale addormentate, un po' ammaccate quando il sonno le stropiccia. Amale sapendo che non ne hanno bisogno: sanno bastare a sé stesse. Ma, appunto per questo, sapranno amare te come nessuna prima di loro.

Di Antonia Storace.



There are women. And then there are women women And these you don’t have to try to understand them, It would be a lost battle from the beginning. You need to take them and that’s it. You need to take them and kiss them, Without giving them time to think. You need to break away, with a bear hug that takes away their breath, those fears that they will know to entrust you with only once, at very low voice. That’s because they are ashamed of their weaknesses and, once they will have revealed them, they will torment you -in a slow and silent agony- just by the thought that revealing their skin and showing their humanity and their availability and their longing for just a brief fucking instant, they will see your shoulders turning and your steps leave. Therefore, take them and love them. Love them when are dressed, and with no make up As they all are good at getting undressed. Love them helpless and with no make up, Because you don’t know how a woman eyes Can find shield behind a mascara veil. Love them asleep and a bit indented when sleep is creasing them. Love them knowing that they don’t need it, As they know how to be self-sufficient. But precisely for this reason they will know to love you like nobody before them.

Poesia di Antonia Storace.
Traduzione di Domenico de Masi.

Evidentemente questo è il periodo della raccolta che segue ogni semina fatta con il cuore. Ieri mattina, una mail spedita da New York ed una da San Diego, mi comunicavano che il mio testo, Donne al Quadrato, letto da Fabio Volo su Radio Deejay e da Radio Capital durante il programma "ParoleNote", è arrivatyo in America ed è stato tradotto in inglese. Ora, io non lo so se esistono i miracoli. Ma questo ci assomiglia di sicuro. Un anno fa, qualcuno mi disse: "Ne devi fare di strada", col tono superbo di chi si sente migliore e impaurito. Bhè, da Sant'Antimo a New York... direi che un po' di strada, alla fine, l'ho fatta davvero.

"Lasciami dire che qui ricevo commenti sinceri da Città del Messico, Los Angeles, Newport- Connecticut, Toronto -Canada, San Francisco e dicono sempre: "Peccato che non posso leggere l'originale in Italiano. Dillo ad Antonia che i Suoi sentimenti ci hanno toccato dentro perché sono veri!".
Dritta dritta dagli States.

Da ieri sera, anche su Radio Capital, letta durante il programma radiofonico ParoleNote.

giovedì 16 ottobre 2014

If you can't, then you must

Martedì mattina - come in quelle cose che sembrano accadere a caso, ma a caso poi non accadono - accendendo la radio, ho sentito Fabio Volo leggere un estratto del mio blog durante il programma "Il volo del mattino", su Radio Deejay. Il mio cuore ha perso un colpo e, nello spazio vuoto di un battito mancato, ho compreso cosa fosse la più autentica Felicità. In un periodo di lotte continue, battaglie silenziose e coraggio che non si arrende, mi è parso chiaro che i sogni non si scordano di noi pure quando la fatica delle sfide quotidiane ci obbliga a stiparli in un cantuccio. Ma quelli hanno il gps incorporato, e ritrovano con facilità la strada che conduce a destinazione. Senza giustificazioni. Senza scuse da perdenti. Due giorni fa, in una mattina d'Ottobre qualunque, assolutamente ignara di tutto, ho acceso il computer e scoperto che una radio famosissima stava sparando nell'etere le mie parole. "Uno su mille ce la fa", canta Morandi. E a me è sembrato di farcela davvero. O, almeno, di essere sulla buona strada. In quel momento, mi è tornata alla mente una frase di mio padre: "Se sprechi il tuo talento sei colpevole due volte". Ora so che il talento, quello vero, urla così forte che, alla fine, sei obbligato ad ascoltarlo. Non è mai troppo tardi. Siamo tutti nati per vincere. Ciascuno a suo modo. Il fallimento è solo una brutta storia che raccontiamo noi stessi ogni giorno, e alla quale ci siamo tristemente abituati. Perché è più comodo. Perché è più facile. Perché il cambiamento fa paura. E la Felicità pure. E allora si scelgono sogni tarocchi, amori di seconda mano, strade già battute, battiti consumati. Lo slancio di spiccare il volo, invece, chiede di essere pagato in coraggio. Ma, una volta in cima, quanto è bella l'ebbrezza della vetta?


giovedì 2 ottobre 2014

Sagome e profili

Oggi pomeriggio mi sono appisolata sul letto dei miei genitori. I lati su cui dormono sono deformati, il materasso sprofonda leggermente, richiamando la sagoma dei loro corpi e del loro sonno. Stesa al centro, tra i due invisibili profili, ne ho tracciato i contorni con le dita. La testa di mia madre, le mani di mio padre. Quello è l’unico posto in cui riesca ad addormentarmi senza troppi pensieri. Quasi ci fosse una specie di pace, di quiete, di addio alle armi. E non si tratta di uno strano complesso edipico che mi fa tornare bambina. No. E’ pace da grandi, quella. Quiete da adulti. E’ stata, probabilmente, l’ultima volta che ci ho dormito. A partire da domani, in questa estate difficile e bellissima, nulla sarà più come prima. Due valige, una borsa, e cinque scatole. La mia vita sta tutta quanta in due valige, una borsa, e cinque scatole. Non ti rendi conto di cosa lasci fino al giorno in cui lo lasci. Ci hanno insegnato che vale per le persone. Ed invece vale anche per le cose. I libri quando li imballi, che ti sembra di imballare pure il tuo destino; i peluche alle cui scatole fai dei fori per assicurarti che respirino - perché lo sai che è un po’ infantile e senza senso, ma non puoi fare a meno di sentirti un po’ infantile e senza senso anche tu; i vestiti, che qualcuno lo porti, qualcuno lo lasci, molti li butti. Le lenzuola, perché sembrano uno scherzo e invece non lo sono. Non c’è nulla di più intimo della federa di un cuscino, tra le cui pieghe hai addomesticato i pensieri, o del lembo di una coperta tirata fin sopra la testa, a proteggerti dai mostri sotto il letto. Lo squarcio marmoreo della mattonella in cucina, quando è saltata per aria la moka e la polvere di caffè si è sparsa ovunque, a ricordarti che, certe volte, la calma è solo apparente, la bellezza è fumo dentro gli occhi, la tensione continua a premere dall'intero fino al giorno in cui gli equilibri si rompono e la ferita diventa quasi una medaglia da appuntare sopra il petto. Oggetti che raccontano una vita, e che adesso sembrano non avere un’anima, o averne una triste e silenziosa. C’è chi parte per andare verso, e chi parte per scappare da. Io mi sento un po’ entrambe, al momento. Ma se è vero che l’Universo non lancia mai sfide superiori alla portata delle nostre spalle, raccolgo il guanto e scendo in campo. Oggi, ho imparato il funzionamento di una livella, che cos’è un fisher, come montare una mensola, lavorando fianco a fianco con papà. Al mio ritorno, il mio letto non esisterà più. Non esisterà più la scrivania sopra la quale sto scrivendo adesso e neppure il tavolo a cui ho cenato questa sera. Non ci saranno più le scritte sopra le pareti della mia camera, o la lavatrice nel ripostiglio, che rompe i coglioni ogni notte col rumore martellante della centrifuga in funzione. Affacciandomi alla finestra, non vedrò più zia fumare una sigaretta sul balcone, e neppure sentirò il rumore del cancello in piena notte, quando Teresa ed Antonella rientrano. Dovrò imparare una quotidianità diversa, fatta di gesti e suoni e ritmi e ore ancora sconosciute. In ogni caso, e al di là di tutto, resto io, la mia famiglia, l’uomo che ho accanto. E va bene così. Questo è solo un altro giro di giostra. Tanto vale montare e godersi la corsa. Il male si paga. La Felicità ci spetta di diritto.

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martedì 23 settembre 2014

Traslochi

La cosa più strana di un trasloco è non avere ancora lo specchio in bagno. Sono otto giorni esatti che non vedo la mia faccia. Mi lavo i denti alla cieca, mi vesto provando ad evitare accostamenti di colori daltonici e, per capire se sta spuntandomi un brufolo, devo tastarmi con le dita. Non so quanto profonde siano le mie occhiaie, ma ho la netta sensazione di dover fare una puntatina dall'estetista per le sopracciglia da lupacchiotto selvatico che - ne sono certa - stanno proliferando allegramente e senza posa. Non ricordo più come sono fatta. Un po' di tempo ancora, e crederò di avere gli occhi verdi sotto un manto di capelli biondi. Eppure, c'è di buono che non sento il bisogno di specchiarmi, e questo mi rende probabilmente libera dallo schiavismo di un'apparenza perfetta ad ogni costo. Mi sono affrancata dal superfluo e mi domando come sarebbe se, nel mondo, gli specchi potessero smettere di esistere e la gente cominciasse a guardarsi dentro invece che fuori. Forse ci sarebbero meno abiti firmati, e più persone di autentico valore. Meno unghie laccate, capelli caldi caldi di piega, cartellini di elevatissimi prezzi - a comprare un'eleganza dell'anima che nessuno ti vende - e più teste pensanti. Chi vale poco o niente non potrebbe più nascondersi dietro il luccichio di un noto marchio altisonante e finirebbe col rivelarsi per quello che realmente è: una nullità calzata e vestita. Calzata bene, certo. E vestita meglio. Ma quello soltanto. Al contrario, quanti hanno davvero qualcosa da dire, vestirebbero i propri valori e in quelli la gente si specchierebbe, riconoscendo i suoi pari.

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lunedì 28 aprile 2014

Ciao Marco

... quello che non sapevo, quello che non avevo letto, e che nessuno si era preso la briga di spiegarmi, è che il vuoto manchevole del suo pezzo di cielo, non lo avrebbe colmato la Vita. Neppure ne avrebbe addolcito gli angoli. Allora, ho dovuto imparare la differenza tra i dolori che scegli - e dei quali puoi liberarti scegliendo - ed i dolori che, contrariamente, non puoi evitare. I primi mi hanno insegnato che la mia Felicità è roba mia, e non la delego a nessuno. Così, pure quando l'Amore volta le spalle, e mi abbandona, Io resisto e non smetto mai di guardare il sole. Dai secondi, invece, ho imparato ad onorare la sacralità di questa Vita, che è una e non mi basta. Perciò, la premo come un frutto succoso e maturo, col tocco mordace di chi è disposto a mandar giù l'amara durezza della scorza, pur di assaporare la tenerezza della polpa. Perché non lo so se ogni cosa ha il suo prezzo ma, se l'avesse, io sarei disposta a pagarlo. Così, colleziono attimi d'eterno, cicatrici che sono solchi disegnati con la punta delle dita, atti di coraggio, di puro amore e di incoscienza, che nessuno potrà togliermi. E quando mi danno dell'ingenua, io sorrido e vado oltre. Gli occhi con cui guardo la bellezza del mondo, non li darei via in cambio di alcuna cinica, sgamata, e fintamente sveglia saggezza. Perché, quattro anni fa, per la prima, Qualcuno mi disse che ero venuta alla luce con le ali di un'Aquila, e come tale avrei dovuto volare. Allora capii chi ero, e che genere di Vita avrei scelto di vivere.

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lunedì 31 marzo 2014

Guardavo la Primavera oltre l'ampia vetrata, e mi pareva ancora vestita d'Autunno. Eppure non c'erano dubbi. Il calendario - almeno quello - non mentiva: Primavera era ormai da giorni. L'avevo sentita nascere anche al centro del mio cuore malandato sebbene, con la stessa follia della coda di Marzo, mi ostinassi a dissimularla, ammantandola di foglie caduche, vento freddo e rami incerti. Avevo paura di fiorire, paura del prossimo inverno, paura che arrivasse assai prima di Dicembre. Mi coprivo. Per quasi due anni, m'ero sentita come quella cintura di Hermès. L'aveva pagata 670 euro, mi pare. Poco più o poco meno, non importa. 670 euro per un arnese che, in buona sostanza, era stato creato per ottemperare all'ingrato compito di tenere su il cavallo dei pantaloni. E poiché, dentro quei pantaloni, di palle ce ne erano assai poche, non era neppure necessario che fosse resistente: leggero il peso, esiguo il compito. Un mero orpello di vanità, e di tarocca bellezza. Seicentosettanta euro per una cintura che non aveva mai indossato, e che pure era rimasta intatta dentro un armadio. "Non voglio rovinarla", mi diceva: la sacra sindone delle passerelle. Come se l'unico modo per proteggere le cose preziose, fosse quello di non viverle, invece che imparare a trattarle con cura. E' bella la parola "cura". E' bella, e fa paura. Gli antichi etimologisti la ricongiunsero al termine "cor": cuore. Maneggiare con cura, equivale a toccare col cuore. Curare è la declinazione concreta del verbo amare. Dopo quasi due anni, mi accorgevo di essere stata trattata al pari di una striscia di cuoio per le brache. M'aveva voluta ad ogni costo e, a costo di un prezzo molto alto - che, in verità, io soltanto avevo pagato - mi aveva ottenuta. Si era però guardato bene dal prendermi veramente. Come un gioiello prezioso, la cui luce t'acceca, ma al quale non ti avvicini mai troppo, per paura di romperlo. Perché sapeva - Dio se lo sapeva! Io soltanto lo ignoravo - che m'avrebbe rotta se mi avesse presa. "Le persone speciali hanno bisogno di mani speciali", ho letto una volta. Le sue, non lo erano. Ora, io inciampavo nello stesso errore. Temporeggiavo; evitavo di espormi; l'alba di nuovi orizzonti nasceva e, per larga parte del tempo, trovava i miei occhi girati nella direzione opposta. Dovevo scegliere se mettermi di nuovo in gioco - con una posta in palio assai diversa dal mio passato - oppure correre il rischio più pericoloso di tutti: permettere al pendolo delle emozioni di fermarsi. Infondo, sapevo bene cosa avrei fatto.

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mercoledì 19 marzo 2014

Ti amo papà

Ti amo Papà. Perché siamo identici in tutto. Carattere forte e cuore di burro. Ti ho amato un po' meno quando mi hai detto: << Prova. Rischia. Sbaglia. Soffri, laddove fosse necessario. Se non avrai paura del dolore, il dolore avrà paura di te. Non esiste altro modo per crescere, e crescere dritti >>. Solo oggi capisco, papà. Solo dopo aver provato, rischiato, sbagliato, sofferto, ed essermi affrancata dal dolore. Spero di non averti deluso. Ti amo quando ridi con gli occhi. Perché, nei tuoi, ritrovo i miei stessi occhi. Ti amo quando non parli, Papà. Poiché da te ho imparato che il silenzio ci libera dal superfluo, educandoci alla bellezza potente delle parole scelte con cura. Per amare. E per ferire. Ti amo Papà. Perché mi hai insegnato che l'ironia è disarmante, la cultura fondamentale, l'intelligenza un privilegio che, talvolta, esige il suo prezzo da pagare. Il coraggio di saldarlo, ci qualifica come persone. Ti amo Papà. Ed il petto mi si gonfia di orgoglio quando qualcuno mi dice : << Sei identica a tuo padre >>. Ti amo perché, prima di amarti, ho dovuto combatterti, farmi libera dal tuo amore che pure, qualche volta, sentivo troppo stretto, nel suo naturale tentativo di proteggermi. Ti amo perché, prima di amarti, ho dovuto vedere l'uomo dietro il padre. Ti ho letto le rughe, papà. I solchi sulle mani, le spalle dritte, la mascella serrata. E, leggendo te, ho imparato a leggere il sogno di quei libri verso i quali mi hai spinta sempre, affinché non sprecassi il talento di cui il tuo sangue mi ha designata erede. Ti amo Papà perché, prima di amarti, ho dovuto farmi figlia. E figlia degna. Di quella schiena che per il mio crescere si è piegata, nelle mattine troppo stanche di un lavoro che ti spezza. Ti amo e, prima di amarti, ho vanificato i tuoi sacrifici di fatica e di sudore, contestato le tue scelte, gli spigoli vivi del tuo carattere e, finalmente, compreso quanto, in quel carattere, ci fosse larga parte del mio Destino. Ti amerò ancora di più il giorno in cui sarò genitore anch'io. Allora sentirò quello che sentono i padri quando diventano padri.

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martedì 4 marzo 2014

Gli uomini, i budini e le terme

Mi ci sono voluti quasi 28 anni per capirlo. Un paio di calci in culo ben assestati. Qualche incubo di troppo. Gli uomini si dividono in tre categorie. I "maschi budino". Quelli emotivamente molli come la gelatina che ti rifilano negli ospedali americani. Flaccidi. Inconsistenti. Torbidi. Che ci puoi guardare attraverso, senza però vederci mai veramente chiaro. Provi ad afferrarli, e scivolano via. Forti della loro natura, sempiterna e viscida, dicono di volere una Donna al loro fianco. In molti casi, sono addirittura convinti di avercela già avuta. Se ne incontrano una vera, però, a stento sanno riconoscerla. E, pure quando ci riescono, scappano via così veloci che, a confronto, Speedy Gonzales gli fa' na pippa. I "maschi saturnia". Come mi ha insegnato un'amica. L'equivalente spoetizzato del Caronte dantesco. Ti traghettano da una storia importante, con uno stronzo, ad una nuova storia importante, probabilmente con un altro stronzo. E, nel mentre, ti rimettono in sesto. Meglio di un fine settimana alle terme. Sono belli, colti, affascinanti, sanno attizzarti e scopano magnificamente. Corteggiatori vecchio stile, allupati dentro un letto, brillanti conversatori a cena, non sfigurano davanti agli amici e si ricordano sempre di versarti il vino. Ti fanno arrivare a ripetizione. Ma loro non arrivano. Al tuo cuore. Non arrivano. Rappresentano un felice passatempo per quelle donne ( Dio le benedica!! ) che rifiutano l'ancestrale, e rompicoglioni, retaggio culturale che le vuole sante virginali, o puttane senza speranza. Usano il loro corpo con serenità, libere da finti moralismi bacchettoni - certe volte più lascivi del sesso lascivo - e forti di una testa pensante. Ma col cuore ancora troppo ammaccato per lasciare che un nuovo amore ne varchi i confini, vincendone le resistenze. Poi, ci sono gli Uomini. Cioè. Gli Uomini Uomini. Capiamoci bene. Li riconosci facile. Sono quelli che amano. Semplicemente. Amano. E sanno Amare. Senza scuse. Perché la semplicità è la forma della vera grandezza.

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sabato 15 febbraio 2014

Matematica sentimentale

Dividiamoci, mi disse. Come fossimo divisore e dividendo tra le tonde parentesi di un' equazione algebrica. Due diviso due fa' Uno, col resto di Zero. Matematica sentimentale. Lui, in quella, era un campione. Io una schiappa, troppo lenta ad imparare, eppure certa che la rimanenza della nostra aritmetica separazione non fosse esattamente zero in quanto zero. Poiché dentro quel sopravvisuto niente, c'erano le mie notti senza sonno e le sue parole senza senso; le guerre inutili, che vincevo a mani basse, perché qualcuno una volta disse che la ragione appartiene ai fessi: mio malgrado, scoprivo di essere una di loro. Al centro esatto del nostro nulla superstite, ci stavano i ricordi di chi ricordi veri non ha fatto in tempo a costruirseli. C'era la presenza dell'assenza, la mancanza che non confessa, l'ombra di un vecchio male da silenzio, le mie scomode verità e le sue bugie, scomode di più, a rimbalzare nell'abitacolo scuro di una Megan. Quel nulla, mischiato col niente, non mi faceva paura. Dentro c'avevo messo pure la voglia di tornare ad essere bella per un uomo; l'entusiasmo che arma il braccio con un bicchiere di vino rosso; l'eroica dolcezza indifesa di una mano aperta, quando impara il tratto di carezze nuove; il coraggio di una donna che non si piace abbastanza, e allora sceglie di demolire per ricostruire, piuttosto che passare un poco di vernice tarocca, in attesa che il tempo di nuovo la scrosti. Zero è un bel numero. "Ricominciare da zero" è una preghiera che dovremmo recitare a cicli di vita sincronici. Quando un amore finisce. O il lavoro ci spezza. Quando l'asticella del limite si sposta. Il fallimento scalza la vittoria. E l'apatia ci ferma. Zero è un bel numero. "Ricominciare da zero" è una voce aggiunta al dizionario, e recita così: "Ci sarà sempre un altro amore, un altro viaggio, un altro accordo musicale da intonare sulle corde della vita. Comprerai abiti nuovi, nuovi trucchi e nuovi libri. Ti sentirai nuova pure tu. Mangerai cibi insoliti. Perderai la rotta, tra le strade di una cittadella dal nome impraticabile e straniero, ed imparerai la differenza che passa tra il viaggiatore ed il turista. Farai scelte nuove, e nuovi errori. Sorriderai al pensiero di non commettere più gli stessi. Nel sesso, sperimenterai l'audacia di altre posizioni, il profumo intenso di una pelle ancora estranea. Forse un poco ti vergognerai. Forse no. Non avrà importanza. Qualche volta ti sentirai diversa, e farà paura. Certe altre ti sentirai te stessa, e sarà magnifico. Perciò tu prova. Il prezzo di un sogno è il suo coraggio". Ieri, la filodiffusione passava "She will be loved", dei Maroon Five, e "Home", di Michael Bublè. Da dieci anni, ormai, sono loro la colonna sonora della mia vita.

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mercoledì 29 gennaio 2014

V per vittoria

E così, alla fine, mi ero rimessa in piedi. Col fiato corto, e su gambe non ancora interamente stabili. Ma in piedi. Era successo il giorno in cui avevo smesso di aspettarmi qualcosa da lui. Lo stesso giorno in cui avevo smesso di sperare che le sorti di quell'amore potessero cambiare. In ultimo, semplicemente, ero cambiata io. Ma non cambiata del tipo: "con i sentimenti ho chiuso"; "sarei voluta ...nascere stronza"; "d'ora in avanti, calci in culo a profusione". Nulla di tutto questo. Niente scuse da perdenti. E neppure avevo smesso di amarlo. Al contrario, ero orgogliosa di quel mio cuore malandato che - a dispetto di ogni colpo, e della sua eco di ritorno - aveva tenuto duro e, in futuro, si sarebbe innamorato ancora. Così, almeno, mi piaceva pensare. Il mio cambiamento era stato più sottile, più profondo, a tratti persino più cattivo: mi ero ricordata della donna che ero e di quella, certamente più bella, che un giorno sarei diventata. Quella donna non avrebbe permesso ad un uomo - neppure fosse stato sua padre, o Gesù Cristo in terra - di trattarla come il giocattolo d'infanzia che sempre ti è caro, ma dal quale torni solo dopo aver provato l'intero reparto "da 0 a 7 anni: giochi da tavolo per menti disimpegnate". La donna che ero sperava - tra qualche tempo, quando fosse stata un po' più grande - di diventare mamma. Se avesse avuto un figlio maschio, lo avrebbe chiamato Riccardo, come l'antico Re Cuor di Leone. Nomen Omen, dicevano i latini. Il destino nel nome. E a quel figlio, dal nome coraggioso, avrebbe insegnato l'educato amore per le donne: l'amore che non fa capricci, non cambia luna, non s'arrende al disincanto, alla tristezza e al suo passato, non molla al primo ostacolo, non da' nulla per scontato. L'amore che insiste anche quando crede di essere giunto al capolinea, poiché l'ultimo tentativo è sempre il penultimo. Quella donna ripensò a suo padre quando, una sera di otto anni prima, le disse: << Trova un uomo che sia forte, ed intelligente, quanto te. Oppure abbracciati la croce, e rassegnati all'idea di restare sola per sempre. Sono i fatti a qualificare le persone. Non le parole. Le parole incantano, ed ingannano. I fatti rivelano e dimostrano. Guarda quelli e, se non ti convincono, punta i piedi. Punta i piedi e non cedere di un millimetro >>. La donna che ero rivendicava il suo sacrosanto diritto a spezzare la proverbiale corda troppo a lungo tirata e, sebbene sentisse ancora certe mancanze, ripensava alla prima volta in cui s'accorse di non avere alcuna voglia di ascoltare ciò che lui intendeva dirle, certa che le sole parole capaci davvero di cambiare la partita - "Ti amo. Voglio stare con Te" - non le avrebbe udite mai. E poiché qualunque altra frase, diversa da quella, non le interessava, scelse di provare seriamente ad andare avanti. Prese tutte le cene che insieme non avevano fatto, e ci portò le sue amiche. Le annaffiò col vino rosso - rigorosamente toscano - la prospettiva di un sogno, e quella voglia di rivalsa che fa' di una donna, sia pure alta appena 1 e 60, un gigante armato. La donna che ero imparava di nuovo a dormire. Certe notti contava le pecore, certe altre le stelle, tenute su da fili invisibili. C'erano notti in cui contava i libri che aveva letto, i libri che avrebbe voluto leggere, quelli che presto avrebbe corretto come Editor, i passi in avanti che avrebbe compiuto. Così, sfinita, si addormentava. Quando i pensieri si facevano spilli appuntiti, sotto i cuscini, la svegliava il suono delle sue stesse urla. Ma, con pazienza certosina, lei li avrebbe smontati uno per uno. Quella donna osservava silenziosamente le sue amiche, e la personale battaglia che ciascuna stava combattendo: contro l'ingannevole convinzione di non essere abbastanza, un lavoro che tardava ad arrivare, un amore bugiardo svanito nel nulla, la distanza che complica le cose, le coperte tirate fin sopra la testa, ed un passato ingombrante che lascia segni sulle mani. Ripensava a quanto erano belle, e a quanto poco se ne rendessero conto: esempi di coraggio, tenacia, determinazione, e non arrendevolezza. Le sue Rose di Atacama. La donna che ero è la donna che ancora sono. C'è stato un tempo in cui l'ho scordato. Per fortuna, ho fatto un corso di tecniche di memoria.

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lunedì 20 gennaio 2014

Invitami a colazione

Io, con un uomo, voglio poterci fare colazione. Prima del cinema e della passeggiata a cercarsi le mani; della cena formale o della pizza al taglio; prima del primo bacio, e prima pure del sesso. Voglio un uomo che mi chieda di fare colazione insieme. Così, per vedere come inizia ogni sua giornata, quando il sonno ancora gli stropiccia la faccia e gli occhiali scuri nascondono le sue notti stanche. Voglio capire se è uno da caffé forte, o se invece lo annacqua col latte; se il cappuccino lo manda giù liscio, oppure lo preferisce schiumato - a disegnarsi baffi bianchi intorno alla bocca, in una pioneristica visione dei suoi primi ottant'anni. Voglio vederlo ordinare un cornetto vuoto, sposare la marmellata col burro, sentirgli dire che ama quella d'arancia: così, poi, io amerei lui. Voglio vedere se mi riscalda la nastrina nel forno, e non si scorda di levare via i granelli di zucchero che poco mi piacciono. Se, con le mani, mi pulisce le briciole agli angoli delle labbra, o se invece le lecca via con un bacio. Se mi siede accanto, oppure di fronte. Se ama il sesso mattutino. Se, al contrario, è figlio di un pudore antico, e certe cose le fa solo col buio complice della notte. Mi piacerebbe capire se è un tradizionalista da torta di mele, azzarda tisane improbabili, mangia lento e senza scuse, legge il giornale, ascolta la radio, resta in silenzio, e mi tiene con la testa sopra la sua spalla. Voglio farci colazione con un uomo: dal modo in cui accoglie ogni giorno che nasce, si intuisce come accoglie la Vita.

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venerdì 3 gennaio 2014

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Trecentosessantacinque giorni, lentamente, sullo sfondo, in dissolvenza. Trecentosessantacinque giorni, e sentirli tutti. Forse pure qualcuno in più. Veronica al binario 1, l'abbraccio di Simona ed i suoi fulgidi capelli rossi, i porticati di Bologna - a cui spesso torno col pensiero, presto con in mano una valigia. I giorni di Pasqua. Quando ho scoperto che l'uomo che amavo aveva un'altra. Gli stessi in cui ho conosciuto Maria Rosaria. Quasi che la Vita volesse saldare il debito, pareggiare i conti. Gesù Cristo è morto, e risorto, in tre giorni. A me, è servito un anno per intero - con tutti i suoi tramonti, e ciascuna delle sue albe. Ma lui è il Figlio di Dio: parte con un discreto vantaggio, echecazzo!! La storia di una festa a sorpresa, di una vacanza che è stata il primo salto della fiducia - mentre, in auto, Jovanotti cantava: "Io penso positivo, perché son vivo, finché son vivo", ed un paio di occhi azzurri mi si incastravano dentro, tra quattro parole in italiano, mezza in inglese, ed un numero imprecisato di dolcissimi sorrisi imbarazzati: universal language of angels. La storia di una pulce ammaestrata, di un pendolo che oscilla, di un'Aquila che si impegna a meritare il suo posto in mezzo ad altre Aquile. La storia dei respiri consapevoli, della paura come indicatore - poiché ciò che temiamo è esattamente ciò che ci qualifica - del rancore, tristemente somigliante ad un guinzaglio, e del perdono - che comprende, senza per forza giustificare - così da liberare noi stessi, e gli altri: niente ci fa grandi come il coraggio di aprire le mani, e lasciar andare. La storia di un Natale che arriva con tre giorni di ritardo, sul calendario dell'intendere comune; di una cena che si è fatta gioco di squadra; di un trovatello a quattro zampe, che ora mi dorme accanto: la mia carezza del mattino. La storia dell'ultima notte dell'anno, e di una chiacchierata - lunga, inattesa e bellissima - cominciata col buio più pesto, fino al chiarore della primogenita alba. La storia di un gabbiano. Nell'attimo in cui punta le zampe sugli scogli, e si da lo slancio per volare. Esistono mille anni nuovi dentro un anno vecchio. Ricominciamo molte volte. Nel cuore di un giorno qualunque. Quando torniamo ad amare, rischiamo il certo per l'incerto, ed un sorriso ci sorprende in mezzo al pianto. Quando lasciamo i sentimenti piccoli alle persone piccole, per noi teniamo la verità che non cerca scuse e, così, impariamo a fare fesso il dolore. Quando cambiamo taglio di capelli, e ci sentiamo belle, dentro un abito nuovo, anche se all'orzo in tazza grande, con acqua calda a parte, preferiamo caffè nero bollente - che farà pure venire le rughe, ma almeno non ci fa sembrare frigide come Nostra Signora delle Nevi - non abbiamo due occhi verdi da esibire, lo stacco di coscia di Julia Roberts, o una coroncina da reginetta di bellezza arrivata seconda: che i secondi sono i primi degli ultimi, e qualcuno dovrebbe ricordarselo. Ricominciamo quando ci dice "grazie" un'amica; quando capiamo di averne ancora molta di strada da fare - questo si - ma quella che muove nella direzione di un sogno più alto; quando il disamore degli altri non ha più il potere di farci sentire piccoli, e troviamo il coraggio di correre da, e con chi, davvero vorremmo ci camminasse affianco. Ricominciamo molte volte. Nel cuore di un giorno qualunque. Quasi mai il primo Gennaio.

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